Licenziato dalla Fiat. Una decina di anni fa, nel
corso di un lunghissimo conflitto sindacale nello stabilimento Alfa
Romeo di Arese, venni licenziato per motivi politici (così sarà
riconosciuto) dalla direzione Fiat, che aveva acquisito il noto marchio
del 'biscione' con tutti i suoi dipendenti. Allora ero operaio alla
catena di montaggio e da oltre vent'anni delegato sindacale, anche con
ruoli dirigenti, prima nella Fiom-Cgil e poi nel sindacalismo di base.
Si dà il caso che, grazie ai meccanismi perversi di rappresentanza che
dalla metà degli anni '90 conferiscono rappresentatività ai firmatari di
contratti e non in misura proporzionale al voto dei lavoratori e delle
lavoratrici, la maggioranza formale delle Rsu era costituita da
organizzazioni che mal sopportavano la mia presenza in azienda tanto
quanto la direzione Fiat.
Accordo sindacati-azienda. Per cui, dopo anni
costellati da provvedimenti di espulsione attraverso liste pilotate di
cassintegrati da collocare a 'zero ore' e di successive vertenze che
riuscivano a vanificarne i propositi (stiamo parlando di decine di
espulsioni e di reintegri.), una parte dei sindacati insieme all'azienda
definisce accordi che consentono di concentrare alcuni dei lavoratori
più sindacalizzati - e quindi scomodi - e alcuni invalidi in reparti
destinati alla chiusura: tutti in mobilità, quindi nessuna
discriminazione.
Reintegrato grazie all'articolo 18. E' attraverso il
combinato disposto dell'azione dell'articolo 28 dello Statuto dei
lavoratori (condanna dell'azienda per attività antisindacale) e
dell'articolo 18 della medesima legge (obbligo di reintegro del
lavoratore licenziato senza giusta causa) che ottengo il diritto a
rientrare nel mio posto di lavoro. Il giudice del lavoro in prima
istanza e la Corte d'Appello successivamente riconoscono l'esplicita
volontà persecutoria della Fiat, a cui viene imposto di cancellare il
provvedimento 'politico'.
Attacco all'articolo 18. Confindustria e governo
Berlusconi, con l'appoggio di alcuni sindacati complici (la definizione è
del ministro Sacconi) e di insigni giuristi democratici come il
professor Pietro Ichino, decidono di sferrare un attacco aperto
all'articolo 18, ricevendo una straordinaria risposta di massa: chi può
dimenticare le centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che
invasero Roma il 23 marzo 2002, forse la più grande manifestazione del
dopoguerra?
Fine della persecuzione. La Fiat, che sperava di
beneficiare dei favori del governo amico, era ricorsa in Cassazione
contro il mio reintegro. Ma, a pochi giorni dalla convocazione delle
parti al Palazzaccio e di fronte all'assenza delle modifiche di legge
sperate; anzi, alla vigilia di un referendum che chiedeva persino
l'estensione dello Statuto alle aziende con meno di 16 dipendenti, per
la prima volta nella storia - a quanto risulta per casi analoghi -
rinuncia alla Cassazione e pone fine alla persecuzione.
Sacconi e Maroni a favore dei licenziamenti facili.
Da allora il ministro Sacconi, così come il ministro Maroni, ma non
solamente loro, si affannano a studiare le strade per imporre la libertà
di licenziamento attraverso operazioni di aggiramento dello Statuto,
legate all'introduzione di nuove norme contrattuali, cosiddette
flessibili. Non contento, nell'attuale manovra finanziaria Sacconi ha
inserito il famigerato articolo 8, che consente a una rappresentanza
sindacale aziendale di poter derogare con un accordo alle leggi
nazionali, ivi compreso ovviamente il noto articolo 18 dello Statuto.
Ministro bugiardo. Non ho bisogno di aggiungere
argomenti per definire bugiardo il ministro che nega tutto ciò, ma non
certo per ignoranza, dato che per i suoi trascorsi di dirigente
sindacale della componente socialista della Cgil ben conosce la materia.
Oggi sarebbe sufficiente non la maggioranza delle Rsu, terminali
aziendali di sindacati comparativamente rappresentativi, ma un semplice
sindacato di comodo (come il padano Sin.pa) che sottoscrivesse un
accordo con l'impresa per cancellare con una firma leggi e contratti.
Un attentato alla Costituzione, senza ombra di dubbio.
E sarebbe giusto, oltre agli scioperi e alle iniziative legali e
istituzionali di ogni tipo evocate dai palchi dello sciopero generale
del 6 settembre, provare anche ad agire con forme di insubordinazione
non convenzionali, quando in pericolo è la democrazia. E cancellare per
decreto le organizzazioni sindacali non complici è questo.
Ma come la mettiamo con l'accordo del 28 giugno sottoscritto dalle
parti sociali, Cgil compresa, che consente le stesse identiche deroghe,
anche quella sui licenziamenti, purchè si tratti di accordi aziendali
sottoscritti dalla maggioranza delle Rsu dei sindacati firmatari di quel
'patto sociale'? In tutto il gruppo Fiat la Fiom e i sindacati di base
non firmatari dei diktat di Marchionne sarebbero cacciati dalle
fabbriche perché 'minoranza'! L'operaio e delegato sindacale Malabarba
sarebbe stato licenziato e mai più reintegrato e tutta quella
sollevazione popolare del 2002-2003 buttata al vento. Sacconi è un
bugiardo, ma Susanna Camusso per poter contrastare la liquidazione dello
Statuto dei diritti dei lavoratori deve ritirare quella firma di
giugno, che ha aperto la strada al decreto governativo, come le chiedono
la Fiom e tutte le forze sindacali non complici.
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